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Le patate “’mporchettate”

Le patate “’mporchettate”

da | Dic 29, 2023 | Enogastronomia, Ricette | 0 commenti

Insieme al pane, le patate rappresentano forse l’alimento più nutriente e versatile che si possa utilizzare in cucina.

Lo sapevano bene le povere genti d’Abruzzo che – si trattasse di pastori o di contadini – potevano contare su questo cibo come fonte di sostentamento per riempire la pancia.

Spesso identificato come cibo di guerra o di carestia (crescendo sotto terra, le patate erano al riparo dalle devastazioni), non era certamente considerato come pietanza raffinata destinata alle tavole dei ricchi.

“I più fortunati tra i cafoni (*) di Fontamara possiedono un asino, talvolta un mulo. Arrivati all’autunno, dopo aver pagato a stento i debiti dell’anno precedente, essi devono cercare in prestito quel poco di patate, di fagioli, di cipolle, di farina di granoturco, che serva per non morire di fame durante l’inverno. ”
(Fontamara, Ignazio Silone)

Ma anche in tempi duri, con poco, i nostri antenati sono riusciti a renderle appetitose con semplicissimi espedienti e scarsi ingredienti. Ne è la prova il piatto di cui vi raccontiamo oggi, entrato a pieno titolo nella classifica delle ricette abruzzesi speciali.

Ecco la nostra ricetta per le patate “’mporchettate”

Ingredienti (per 6 persone)

  • Patate 2 kg
  • Aglio 4/5 spicchi
  • Rosmarino (2 rametti)
  • Lardo 300 gr (si può sostituire con l’olio e.v.o.)
  • Sale e pepe in grani
  • Acqua

Tagliare le patate e ridurle in tocchetti abbastanza grandi.

Versare in un tegame un battuto preparato con il lardo, l’aglio e il rosmarino. Aggiungere le patate, salare, pepare e coprire con acqua fino alla superficie.

Far bollire lentamente fino a quando le patate cominceranno a disfarsi ed il liquido apparirà ritirato e piuttosto denso.

Servire caldo.

Ignazio Silone cafoni

(*) “Io so bene che il nome di cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, sia della campagna che della città, è ora termine di offesa e di dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore” . (Fontamara, Prefazione, p. 30)

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